HHF: “Gaza for Life” è una iniziativa ragguardevole che vede forse per la prima volta in Italia vari esponenti della scena nostrana impegnati in prima linea nella Striscia di Gaza in un progetto educativo unico nel suo genere. Come è nata l’idea che ne è alla base?

Oyoshe: Gaza is Alive è un progetto sperimentale pilota che si prefigge l’obiettivo di costruire una metodologia d’intervento rivolta ai bambini della Striscia di Gaza, utilizzando l’arte terapia, la musicoterapia e la danzaterapia legate alla cultura Hip Hop. Il fine di tale proposito è sviluppare le competenze di un team di professionisti composto da insegnanti nell’ ambito Hip Hop e psicologi, andando a svilupparne le competenze di aiuto e sostegno psico-sociale nel territorio Palestinese.

HHF: Chi ne sono i promotori e quante e quali figure coinvolge?

Oyoshe: Il team di Gaza is Alive è composto da Dario Fichera, coordinatore logistico del progetto, dal rapper & producer napoletano Vincenzo “Oyoshe” Musto, dal graffiti writer Davide “Smake” Nuzzi, il ballerino franco-algerino Thomas Khalifa e da Alberto “Alby” Scabbia, nome storico della scena Hip Hop italiana, ideatore del Wag Lab di Milano e produttore discografico.

La parte relativa all’intervento psico-sociale è stata coordinata dallo psicologo sociale Alberto Mascena, docente universitario dell’Università Bicocca di Milano, e dalla mediatrice culturale e musicoterapeuta Virginia Danese.Inoltre La fotografa Valentina Nessenzia e fotografo e social media manager Fabio D’Alessandro.

HHF: Si tratta della prima spedizione del team, avete fatto dapprima qualche esperienza preliminare di preparazione sul posto o il progetto è stato tastato direttamente in loco?

Oyoshe: Un progetto di ”Hip Hop pedagogia” non era mai stato proposto ne messo in pratica in un luogo come Gaza, il nostro era un progetto Pilota.

C’è stata per tutti una intensa preparazione psicologica indivuduale, oltre a quella di gruppo a riguardo la spedizione, permessi, documenti e contatti con Gaza. Tantissime le difficoltà nel portare attrezzature audio, e ovviamente tantissimi i controlli che abbiamo dovuto affrontare. Il progetto ha stabilito il suo vero andamento grazie anche al nostro spirito di spontaneità nei confronti della vita e delle persone di Gaza, riuscendo ad instaurare prima un rapporto che permettesse di capire le persone di cosa avessero realmente bisogno. Abbiamo avuto questa opportunità grazie all’aiuto della PCRF, ONG che si occupa della salute mentale e fisica dei bambini palestinesi, che ha creduto nel nostro progetto ed ha fatto si avessimo la possibilità di poter accedere ed operare per lo sviluppo di questo progetto pilota.

Dario Fichera (Cordinatore logistico): I contatti con la comunità locale sono stati costruiti nel tempo da alcuni dei nostri componenti, che si recano nella Striscia di Gaza più volte all’anno. La scelta di supportare e far crescere la Camps Breakers crew, infatti, deriva proprio da un’amicizia di lunga data e da una progettualità condivisa negli anni. I ragazzi che dal 2004 portano avanti in modo egregio questo progetto di scuola di breakdance nel campo profughi di Nusseirat negli ultimi anni, a causa del protrarsi del blocco di Gaza che ha aumentato in maniera preoccupante i livelli di povertà e disoccupazione, erano in gravi difficoltà economiche e rischiavano la chiusura del centro. La prima conseguenza sarebbe stata quella di privare i bambini di un posto sicuro e sano dove aggregarsi e sentirsi parte di una comunità globale; un posto dove poter continuare a sognare. Per questo motivo abbiamo scelto di intervenire proprio nel 2019, senza perdere tempo.

Seppure è vero che il progetto è stato definito “pilota”, non abbiamo di certo improvvisato. Prima della partenza c’è stata una lunga fase di preparazione e studio: abbiamo costruito la metodologia in sinergia con la comunità locale e ci siamo confrontati con chi aveva già fatto esperienze simili.

Virginia Danese (Mediatrice culturale): Inizialmente non eravamo partiti con degli obiettivi ben precisi, proprio perché è un progetto pilota, quindi avevamo in mente che, dalle varie esperienze sulla propria pelle di chi aveva sperimentato l’hip hop ed aveva avuto benefici da esso, ci siamo mossi in quella direzione. Senza darci degli obiettivi ben precisi se non quello di far stare meglio i ragazzi

Questo è quello che che ci prefigevamo come obiettivo.

HHF: Vi aspettavate di trovare una così grande partecipazione a questa iniziativa? Le vostre aspettative e i risultati conseguiti sono coincisi?

Virginia Danese: Se ci aspettavamo di trovare una così grande partecipazione no sinceramente. Io personalmente non conoscevo molto bene il contesto di Gaza, ma sono una mediatrice culturale, ed avendo studiato la lingua e la cultura araba  immaginavo che potessero esserci delle resistenze da parte delle famiglie ad accettare una cosa che riguardasse contesti più occidentali che sarebbero potuti risultare non in linea con i loro canoni e usanze di religione. Quando in realtà poi ci siamo ritrovati lì, con una trentina di bambini e anche soprattutto delle bambine, secondo me è stato già un obiettivo centrato perché a maggior ragione oltre ai ragazzi, avere anche delle ragazzine che più di loro hanno questo ostacolo culturale di doversi attenere certi canoni e stare dentro certe regole è stata sicuramente una vittoria.

Secondo me i risultati sono andati anche un po’ oltre a quello che ci aspettavamo perché in 9 giorni di attività laboratoriali non solo i ragazzi li abbiamo visti stare bene.

È vero non avevamo un paragone con il prima quindi può essere difficile però su alcuni ragazzini abbiamo avuto proprio invece la presenza del genitore che è venuto a raccontarci che qualche giorno prima, il figlio si era chiuso in casa, non parlava, era chiuso in sé stesso, faceva anche fatica a scrivere da quando aveva iniziato, ma dopo due giorni dei nostri laboratori era tutto un’altra persona, era diventato più espansivo, più sorridente e quindi quello se parliamo di risultato che si può toccare con mano sicuramente è stato un risultato enorme.

Stessa cosa anche il l’utilizzo della fiaba come terapia, anche quello era un metodo sperimentale con cui poi siamo andati ad indagare tanti aspetti, quindi abbiamo lavorato con le fiabe, partendo da quelle gia’ esistenti, pensate per lavorare su alcune tematiche come la rabbia, la paura.

Da lì abbiamo approfondito facendo appunto quelle lezione iniziali con i bambini in cui, dopo aver letto un pezzettino, chiedevamo a loro di darci un parere, rivelando tante delle loro emozioni, delle loro paure, delle loro sensazioni: cose che magari non avrebbero mai tirato fuori da soli e men che meno con qualcuno poiche’ non esitono figure lavorative in quel campo perché si pensa a sopravvivere, a mangiare, a dormire quindi non si pensa anche ad un supporto psicologico.

Quando abbiamo creato la fiaba finale, negli ultimi due giorni, in cui appunto li abbiamo guidati senza forzarli, lì è uscito tutto quello che è per un bambino vivere a Gaza quindi la percezione di essere in un posto chiuso, da cui non puoi uscire, la presenza di questo gigante esterno che se provi ad uscire ti schiaccia e questo desiderio di uscire ma di non tornare. Non tornare perché tanto poi il gigante avrà dato la mia casa a qualcun altro.

Gli ultimi due giorni secondo me dal punto di vista psicologico sono stati quelli più forti per i ragazzi e soprattutto, posso dire, per noi perché da esterni abbiamo percepito il disagio di queste persone quindi  anche la mancanza di creatività, di stimoli, il vivere anche la fantasia in qualcosa di reale, in qualcosa che non hanno proprio il permesso sognare, non gli è permesso fantasticare.

Questo l’abbiamo constatato ed adesso che le attività di fiabaterapia e gruppo psicologico stanno andando avanti con uno psicologo locale, è un altro risultato importante raggiunto, si avrà nel tempo con cui poter fare un paragone e quindi questo posso dirti che è il mio il mio feedback rispetta la digestivo io fiabaterapia.

HHF: Gaza è una città martoriata da decenni di guerra e di capovolgimenti di fronte, che l’hanno vista protagonista di una delle più gravi e longeve crisi umanitarie della Storia Contemporanea. Come avete trovato la città al vostro arrivo, quali sono state le emozioni predominanti che avete provato in quegli istanti?

Oyoshe: Accedere in un luogo passando per meticolosi controlli militari in una struttura carceraria contornata da un muro che blocca un’esistenza non è una cosa che mi sarei mai immaginato di fare. Appena superato i controlli militari all’accesso, siamo passati per Il corridoio di Herez; Un corridoio lungo kilometri contornato da reti dalle quali puo vedere il muro. Addirittura ci sono torri di controllo automatizzate, pronte a sparare se superi determinati limiti vicino al confine. Oltre la triste visione reale dell’occupazione militare, Gaza nei suoi scenari cittadini, mi ha spesso riportato al caos dei mercati della mia città. Un continuo ed enorme disordinato mercato affollato, fino a ritrovarci in strade lungo la striscia, poco abitate e spesso distrutte. Le attività ci sono, o almeno ci provano. Le persone costruiscono continuamente edifici. Piccoli negozi di elettrodomestici e telefoni, bar e ristoranti, qualcuno ben curato e reso accomodabile per i possibili ospiti nazionali, o per chi comunque vuole vivere una vita quasi normale. Ho visto anche la parte che sembra essere quella più ”benestante”, ovvero la zona Nord. Anche li le sembianze di un enorme mercato o stazione centrale, con negozi e un centro commerciale. Per quanto riguarda l’emozione nell’assimilare tutto questo enorme mondo, nella mia voce rimbombava insistentemente una voce che diceva: Ti rendi conto di dove ti trovi?

HHF: È stato semplice conquistare la fiducia dei residenti?

All’inizio eravamo visti con molta curiosità. Tantissime le differenze nelle nostre culture, usanze e culture. Quando eravamo in giro per Gaza, al di fuori delle ore di workshop, in ogni luogo dove ci fermavamo, si creava una sorta di centro d’attrazione intorno a noi, fatto da curiosi grandi e piccini, più piccini ovviamente, che nella loro spontaneità, ammiravano i nostri tratti somatici diversi dai loro, le nostre acconciature, e soprattutto i miei tatuaggi. 

Molti mi chiedevano di questi ultimi, ricordandomi che la loro religione non gli permetteva una tale trasformazionea al proprio corpo. Siamo stati spesso in spiaggia per rilassarci e ricaricare le energie, e proprio all’ultimo giorno dei nostri workshop, si è creata una situazione di aggregazione indimenticabile: una chitarra e una folla di Palestinesi al nostro fianco ad ascoltare i miei freestyle e non solo: con noi c’era una nostra amica Palestinese che ci aveva raggiunto insieme a suo fratello, con il quale si è messa a cantare delle stupende canzoni palestinesi suonando chitarra e tromba. Momenti unici resi speciali grazie soprattutto al senso di protezione e di spasmodica ricerca di affetto e di amore della popolazione. Non mi sono mai sentito in pericolo o preoccupato quando ero tra le persone. Non avvertivo lo stesso senso di timore come nei confronti del militarismo imposto, delle divise, dei blocchi stradali. Non sono stati per niente pochi i momenti di aggregazione infatti; Le partite di pallone in spiaggia grazie ai palloni che avevamo portato, il ristorante in centro con i proprietari ormai costantemente a tavola con noi, oppure lo skatepark dove i ragazzi del posto hanno condiviso con me le loro tavole da skate. Non credevo ai miei occhi. Ed è stato bellissimo poter condividere tante delle mie passioni che mi hanno sempre fatto sfogare e sentire libero, con persone che ogni giorno vivono una vita oppressa e vorrebbero solo tornare ad una normalità minima per un po di benessere fisico e mentale.

HHF: Le notizie riportate dai Media italiani riguardanti il bombardamento notturno hanno scosso molte coscienze qui da noi. Gaza e tutta la questione palestinese resta una ferita aperta e sanguinante presso l’opinione pubblica italiana più sensibile. Come è stato, riacquistare la motivazione giusta per portare avanti il progetto il mattino seguente?

Oyoshe: Si è trattato di conflitti al confine, e quella sera dalla finestra del nostro dormitorio vedevamo un cielo illuminato di rosso, e sentivamo chiaramente rumore di spari ed esplosioni, oltre il costante rumore di droni al quale ormai mi stavo quasi abituando. Gli abitanti del posto ci hanno fatto capire che quella è la normalità e che anzi, proprio quel periodo era dei più tranquilli. Ovviamente tanta la nostra tensione. Infatti, essendo stata quella la nostra terza sera a Gaza, da lì in poi anche prendere sonno la notte risultava più difficile. Sentivo dentro di me la sicurezza che sarebbe andato tutto bene. Più una sensazione diciamo, ma per la semplice necessità di avere qualcosa di opposto a quella paura di essere cosi vicini a delle situazioni del genere, dove persone ci rimettono la vita tutti i giorni. La prima cosa da fare il giorno dopo, insieme a Virginia, è stata chiedere ai ragazzi se stessero tutti bene e soprattutto cosa avessero provato la notte stessa. In quel momento, per non sprofondare troppo nella durezza della realtà, ho deciso di affrontare in maniera differente il primo briefing psicologico della giornata con i bambini: far esprimere le loro paure, in suoni. Conoscere e riuscire ad esprimere quali sono i suoni che più li spaventano a Gaza, per poi registrarli e infine usarli per le produzioni da costruire durante i workshop. Ai giovani è piaciuta molto questa cosa, ed anzi ha aiutato molto a sdramatizzare ed a strappare un sorriso per andare avanti.

HHF: In quali condizioni avete trovato la popolazione? Siete entrati in contatto con altre associazioni italiane o estere impegnate sul campo dell’assistenza e del soccorso ai civili?

Dario Fichera (Cordinatore logistico): La popolazione di Gaza è allo stremo, tanto sul piano fisico quanto, o forse di più, su quello psicologico. La Striscia di Gaza è sotto assedio dal 2007, questo significa che per i due milioni di persone che la abitano non c’è libertà di movimento ed il commercio con l’esterno è stato quasi del tutto distrutto. Gaza oggi è una grande prigione. E’ paradossale come un luogo con 42 km di costa sul Mar Mediterraneo possa essere considerato una prigione. Eppure è così: persino la costa è militarizzata ed i pescatori possono pescare solo entro 6 miglia nautiche (anche se spesso vengono già bloccati a 3 miglia). Nessuna imbarcazione può lasciare o raggiungere il porto di Gaza (che abbiamo visitato ed è un luogo che continua a mantenere un fascino particolare).

Gaza, a causa dell’assedio, soffre di quattro gravissime crisi: energetica, idrica, sanitaria, ed ambientale. L’elettricità è presente solo 6 ore al giorno, l’acqua è per il 97% contaminata e pericolosa, gli ospedali sono al collasso e le medicine scarseggiano, i tumori infantili e le malformazioni genetiche hanno il più alto tasso di incidenza al mondo. Per via dei ripetuti bombardamenti, dei droni che sorvolano costantemente il cielo e del controllo repressivo di Hamas la quinta grave crisi è quella psicologica, acuita anche dal diffondersi delle tossicodipendenze. I rapporti annuali delle Nazioni Unite continuano a confermare che Gaza sarà un luogo invivibile già dal 2020. Proprio questi motivi ci hanno spinto a scegliere Gaza come luogo per mettere in campo le nostre energie e le nostre competenze. Saremmo potuti andare ovunque nel mondo a proporre dei laboratori Hip Hop con i bambini, ma Gaza è sicuramente uno dei luoghi nei quali i progetti come il nostro sono più utili. Probabilmente non siamo che una goccia nel mare, ma siamo felici di fare la nostra piccola parte e di avere la possibilità raccontare quello che abbiamo visto a chi non ha la possibilità di andare a Gaza.

Quando a Gaza dici di essere italiano, quello che chiunque ti risponde è “italiano. come Vittorio!” Si riferiscono, ovviamente, a Vittorio “Vik” Arrigoni, il giovane attivista di International Solidarity Movement che a Gaza ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, denunciando le violazioni dei diritti umani e difendendo i più deboli. Oggi a Gaza City il centro di Cultura Italiana è dedicato proprio a Vik e dentro al Centro Vik abbiamo incontrato Meri Calvelli, una donna tutta d’un pezzo che sta dedicando la sua vita alla causa palestinese, accanto agli emarginati. Lei è la rappresentante in Palestina di ACS Italia – Associazione di Cooperazione e Solidarietà, una ONG che da trent’anni fa cooperazione internazionale così come andrebbe fatta. Proprio mentre eravamo a Gaza, Meri ci ha illustrato (lasciando trasparire emozione ed orgoglio) l’ultimo grande progetto che ACS sta promuovendo, ovvero “Green Hopes Gaza”: la riqualificazione sociale ed ambientale nei quartieri popolari al confine nord della Striscia. In una zona dove fino a ieri c’era una discarica, tra un paio di mesi sarà inaugurato un grande centro polifunzionale dove sarà possibile esprimere il proprio estro creativo ed artistico, praticare uno o più sport, leggere libri o semplicemente stare insieme; il tutto assolutamente in maniera gratuita.

HHF: L’Hip Hop è una cultura globale dall’enorme potenziale artistico ed umano, che trova nella sua utilità concreta, tra e per le persone, il suo punto di forza concettuale e di costante rinnovo ai cambiamenti della società in cui s’innesta. Credete che l’Hip Hop possa fare ancora tanto in questo senso, negli anni a venire?

Oyoshe: L’Hip Hop è un totale esempio di rivalsa. Alla base c’è una cultura intenta all’aggregazione sociale, capace di unire ogni tipo di mondo, da quello dell’industria, al mondo sociale e psico-pedagogico. Ora è necessario investire tutte le energie, sia per mantenere vivo un concetto di una cultura, sia per generare bene alla nostra società, la stessa che sognavamo grazie al concetto di ”crew”. Essa aiuta ad emergere con un balzo e uno sprint ritmico dalle problematiche, ed è fantastico che tutto questo si stia trasformando anche in testimonianza scientifica. Siamo in un momento storicamente importante per l’Hip Hop. Ormai una cultura ”grande” di età, è giusto che ora sia matura in tutte le sue sfumature.

HHF: I bambini sono probabilmente gli esseri più indifesi sui fronti di guerra, vivono sofferenze atroci, non di rado restano orfani o senza punti di riferimento, quando non mutilati o uccisi nei rastrellamenti, nelle avanzate dei comparti speciali o nello scoppio di bombe. Come è stato guardarli negli occhi e cogliere la loro sensibilità nel momento in cui si sono dimostrati curiosi nei confronti della vostra iniziativa?

Valentina Nessenzia (Fotografa): Quei bambini sono davvero una forza e non lo dico per usare una frase fatta! La cosa che più ci ha piacevolmente sorpresi, è stato notare che oltre alla naturale curiosità che ogni bambino ha nei confronti della novità, avevano un sacco di cose da insegnarci ed hanno vissuto i workshop come un vero e proprio scambio. Porto un esempio per spiegarmi meglio. Durante la nostra permanenza a Gaza abbiamo vissuto sulla nostra pelle i bombardamenti. Ci siamo svegliati nel cuore della notte dal rumore dello scoppio degli ordigni e ci siamo ritrovati nella sala comune del dormitorio dove eravamo ospiti a guardare attoniti i traccianti cadere lenti. Il giorno dopo, durante uno dei laboratori, abbiamo voluto affrontare il tema della paura con i bambini e ci siamo esposti in prima persona raccontando le sensazioni provate la notte prima. Quello che più ci ha stupiti è stato il fatto che loro in primis hanno tentato di confortarci raccontandoci le loro sensazioni e creando una sorta di complicità con noi sull’argomento. Durante i laboratori seguenti ovviamente le parti si sono invertite e ci siamo messi noi nuovamente nei panni degli insegnanti, ma credo che questo scambio di ruoli ci sia stato molto utile per creare quel senso di comunità che è fondamentale per creare un rapporto di fiducia. La forza di progetti come il nostro deriva proprio dall’importanza di non erigersi da insegnanti, ma di vivere l’esperienza come uno scambio di conoscenze e in questo abbiamo centrato perfettamente l’obiettivo.

HHF: Quali sono i vostri progetti futuri in quell’area geografica, cosa auspicate per il futuro? 

Stiamo continuando a seguire il nostro progetto, avendo in un certo senso fondato la prima scuola dove si adopera con metodologie di pedagogia Hip Hop. Siamo ognuno responsabile del proprio settore, ovvero rap, breaking e graffiti, ed oltre ai bambini ci siamo anche supportati e costruito i metodi di lavoro con gli insegnanti palestinesi. Siamo in contatto, riceviamo report delle condizione psicologiche dei nostri ragazzi e continuiamo a dare il nostro contributo come ad esempio sono riuscito a fare recentemente grazie ad un post sui miei social dove chiedevo nuovi beats per i giovani partecipanti da chiunque volesse dare una mano. Sono state tantissime le adesioni dalla scena, e in meno di 3 giorni mi sono trovato più di 200 beats nella mail, che ho subito inviato al mio referente a Gaza per lavorare con i ragazzi. Oltre questo, tra i miei obiettivi c’è quello di dare opportunità a Sarah di esprimere le sue poesie in rima, e già per questo noi del team, e con il rapper Ayman, abbiamo messo a disposizione tutte le risorse per rendere possibile questo suo sogno, dato che tantissime sono state le soddisfazioni che ha dato durante i corsi, tanto da lasciare una strofa per quello che è il mio album interamente scritto e prodotto a Gaza, che sarà fuori a breve sia in vinile che in CD e con i proventi delle vendite, continueremo ad alimentare il crowfounding del progetto e tutto quello che è legato a Gaza.

Molto presto sarà possibile ascoltare e acquistare quest’album che per me è una sorta di raccolta di ricordi e sensazioni, essendo in parte rappato e in parte strumentale. Posso già svelarvi il titolo dell’album che è : Gaza Is Alive: Experience Album. Con tutto il team, continuamo a progettare per il futuro del gruppo, che insieme ha dato vita ad un qualcosa che ci ha dato tanto dal punto di vista umano, e contiamo di poterci dare l’occasione di portare questo progetto anche in altri luoghi del mondo dove ci sono ancora muri, imposizioni e povertà sotto tanti punti di vista.

Hip Hopera Foundation è una organizzazione di promozione sociale no profit su scala italiana con sezioni aperte anche all’estero. Il suo obiettivo è trasmettere la storia e le discipline della Cultura Hip Hop ovunque essa operi in collaborazione con enti pubblici e privati. Per noi è un dovere dare voce ad iniziative nobili come questa e rinnoviamo la nostra disponibilità in tal senso. Vi auguriamo di portare ancora a lungo il sorriso, la denuncia delle ingiustizie e l’impegno nella costruzione di una coscienza più ampia e solidale affinché questa gente non resti inascoltata e sola. Grazie mille. 

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