Mogadiscio, 25 marzo 1991 – Mar Mediterraneo, 2 aprile 2012
Una sorella, una grande atleta, una migrante.
La polvere accompagna ogni passo, sollevandosi come una nuvola intorno alle sue scarpe, quasi per sorreggerla ed alleviarle la fatica. Le gambe magre sembrano piegarsi come spighe di grano. La fascia sulla fronte contiene a fatica il sudore. Corre. L’aria del mattino si è fatta così calda che, a volte, la linea del traguardo sembra un rivolo d’acqua all’orizzonte. Alì urla e agita le braccia, ma lei vola. Non un rumore la distrae, il ritmo è perfetto. Troppo piccola per correre così veloce, ma lei non sta fuggendo, insegue. Samia ha 17 anni e non ha paura di nulla. Sua mamma vorrebbe che la aiutasse a vendere la frutta al mercato di Mogadiscio, del resto è la primogenita e dovrà prendersi cura dei fratelli. Non può correre, non conviene farlo, non lì e non se sei una donna. I conflitti politici e religiosi stanno dilaniando la Somalia, per le strade la violenza non è mai stata una novità e si ha la percezione che faccia parte della vita. Gli sguardi fieri dei guerrieri somali sono diventati quelli glaciali dei guerriglieri e mostrano un’atroce consapevolezza: l’esistenza vale pochissimo, anzi nulla e sopravvivere è solo questione di fortuna.
Samia insegue sogni, i suoi e quelli di tutte le persone a cui vuole bene. Divora metri. Ripetute, scatti. Niente può impedirle di allenarsi e di seguire i consigli di Alì. Non più da quando una foto di Mo Farah, mezzofondista britannico di origini somale, le ha indicato la via giusta per arrivare lontano. Le scarpe non sono della sua misura, ma andranno benissimo. Si allena sui 100 e 200 metri, distanze impossibili per il suo fisico esile. Ma lei non ha paura di niente. Una guerriera che odia le armi, quelle che le hanno portato via il papà, quelle che si fanno sempre più minacciose quando lei si allena nello stadio cittadino.
Samia vince, gare dilettantistiche certo, ma il suo talento cristallino e la sua incredibile forza di volontà stanno segnando le tappe per portarla dove merita. Il Centro olimpico somalo decide di darle una mano a passare tra i professionisti. Si fa sul serio. Alì le resta accanto e lei corre. Corre come non crede neanche di poter fare. Si allena di notte, al buio, ormai tutti sanno chi è e per i fondamentalisti meglio che stia relegata nell’oscurità, non deve fare proseliti. I sogni che insegue, almeno i suoi, sono molto più vicini e lei accelera. Vola. Vola a Pechino per le Olimpiadi. Nel cuore la gioia non si contiene e l’emozione blocca il respiro e le gambe. La foto di Mo Farah è sempre lì a dirle dove andare, ma lei sa bene come farlo. Adesso si. Non ha mai avuto paura, figurarsi adesso. A differenza di Mo, decide di correre per la sua nazione, non chiede aiuto, né cerca Paesi che la possano adottare. Samia Yusuf Omar correrà per la Somalia e gareggerà nei 200 metri piani.
In ultima corsia osserva le altre atlete. Perfette. Concentrate e disinvolte. Il loro posto è lì. Non si sente da meno, anzi non si paragona neppure a loro. Sa perfettamente che la sua è una categoria diversa, non le importa. Le ammira ma è pronta a battersi. Una guerriera tanto piccola da sembrare una bambina, tanto fiera da poter sfidare la vita, con una fascia sulla fronte, la bandiera azzurra sul petto con una stella bianca che sembra essere il suo ritratto. Allo start è ultima. All’arrivo è ultima. Record personale di 32”16 buono per le statistiche più cavillose. Il suo gesto atletico ha mantenuto eleganza e leggerezza, anche se non ha potuto competere.
“Noi sappiamo che siamo diverse dalle altre atlete. Ma non vogliamo dimostrarlo. Facciamo del nostro meglio per sembrare come loro. Sappiamo di essere ben lontane da quelle che gareggiano qui, lo capiamo benissimo. Ma più di ogni altra cosa vorremmo dimostrare la nostra dignità e quella del nostro Paese.”
Torna a casa Samia ed è pronta a ricominciare. Più forte di prima. A casa, però, le cose sono diverse, anzi no. Sono come le aveva lasciate e forse più violente. Sperava andasse diversamente, ma adesso per correre deve indossare un burqa. Così fasciata non si può, ma l’alternativa è smettere. Basta. Se non lo si può fare a casa, lo si farà altrove. Nessuna resa, nessuna paura. Questa volta niente aiuti dalle istituzioni. Samia parte sola. In Europa qualcuno ci sarà per allenarla. Dalla Somalia come si arriva in Europa? Si cammina. Si corre. Ma lei non scappa, neanche adesso, insegue. Attraversa l’Etiopia, il Sudan, il deserto, la Libia. Nel cuore la stella bianca e le parole di Alì, il cielo di Mogadiscio e le scarpe troppo grandi. Sul peschereccio l’aria è stantia. L’odore della ruggine e del sale dopo un po’ spariscono, come il rumore sordo del vecchio motore. Sono troppi per starci tutti. Forse 300. Si sistema a prua, guarda il mare. È bellissimo, anche se è Aprile. Una gamba dondola giù dalla lamiera scorticata dalla ruggine e dal sole, l’altra piegata sotto di sé. Lo sguardo è oltre, il respiro lunghissimo. Quello non può essere un viaggio, non è come quattro anni prima verso Pechino. Il sorriso non riesce a venir fuori dalle sue labbra scure e lunghe, ma tornerà, prima o poi. Il mare sembra voler riscuotere un qualche tributo dai disperati sulla carretta, urla e spinge. Sbatte e torna indietro. Poi di nuovo. È nero e al largo di Lampedusa è freddo, come quello dell’inverno. Forse si può ancora. Forse le Olimpiadi di Londra hanno posto per lei. Ma come si arriva a Londra?
Il mare deve aver capito che Samia era speciale. L’ha cullata. Le ha chiuso piano gli occhi. La notizia ha fatto il giro del mondo e la sua stella continuerà a brillare nel petto di tutte le donne, di tutte le guerriere, di tutte le spighe di grano che nonostante il vento continuano a resistere. Senza paura.