“Buonasera Signori!”
Nel bar di Frank si è fatto un silenzio irreale. Quel saluto è passato sopra le chiacchiere sul baseball, i boccali di birra, le bocciate sul tavolo da biliardo e sembra dire: “Hey gente, c’è un nuovo sceriffo in città!”. In effetti Bing sceriffo, anzi vice sceriffo, lo era stato davvero, per tredici anni, almeno nella finzione cinematografica della serie più longeva e americana di sempre: Bonanza.
Tutti lo riconoscono e si stanno chiedendo cosa ci faccia un attore famoso, fallito e californiano nello stato del castoro. Il suo sguardo finisce dritto contro quello di Frank che stringe una bottiglia di birra, si avvicina al bancone e gliela toglie dalle mani, sorseggia e la appoggia con l’aria di chi sembra esserci nato, lì, non a Portland, proprio nel bar. È subito chiaro a tutti che Bing Russell è arrivato per restare. Ma per fare cosa?
Il campionato nazionale di baseball della Major League 1972 aveva visto l’abbandono da parte della squadra locale, i Portland Beavers, della franchigia legata alla città, perdendo il diritto a partecipare ad un campionato con rating AAA. Era scomparso, insomma, lo sport nazionale. Non che questo avesse causato grossi drammi alla cittadinanza che aveva smesso già da tempo di affollare le tribune dello stadio per seguire una squadra incapace di rappresentarli. Niente spettatori, niente business, niente baseball. Semplice.
Bing amava quel gioco più di quanto amasse recitare, era stato mascotte degli Yankees e aveva sognato di diventare un professionista guardando Lefty Gomez, Joe Di Maggio e Mickey Mantle. Non aveva il talento, neppure per guardarle da vicino certe leggende e aveva smesso, quasi subito. Un giocatore fallito. Si era trasferito a Los Angeles per lavorare negli Studios e aveva trovato immediatamente spazio nella sfavillante industria del Cinema hollywoodiano, sognava di vincere un Oscar e lavorava duro per arrivare al grande ruolo. Studiava e si impegnava al massimo, ma non aveva il talento del protagonista, non era John Wayne e allora era rimasto sempre il secondo, il terzo, il vice di qualcuno. Un attore fallito.
Come pure suo figlio Kurt, passato da “bambino-prodigio” a “spiacenti-ma-non-abbiamo-un ruolo-adatto-a-te” nel giro di qualche anno, anche se, avrà modo di rifarsi, credetemi.
Ci mancava solo questa: un attore mediocre con alle spalle un passato inesistente da giocatore che arriva in città con suo figlio, mediocre pure lui, per risollevare le sorti di una squadra fallita. Esatto!
Nell’estate del 1973 Bing Russell formalizza l’offerta per l’acquisto dei diritti territoriali di Portland e sborsa la somma di 5000 dollari per creare una squadra che giochi nel campionato della Minor League del North West: i Mavericks!
Ok, ma chi gioca? Kurt è un buon pitcher, potrebbe fare la sua parte e la farà e poi? Poi da uomo di spettacolo ha un’idea inconcepibile: affidare a Frank, il proprietario del bar, la direzione esecutiva. Stando dietro al bancone conosce benissimo i talenti nascosti tra gli operai e gli sfaccendati della città, grezzi, magari, ma se rispolverati potrebbero essere utili alla causa. Non solo, mette un annuncio sul giornale. Crea un’inserzione ad hoc che stimoli la voglia di rivalsa di tutti i falliti del Paese, i ricusati e gli scappati di casa che credono di non essere stati capiti da osservatori e manager delle squadre professionistiche. Credono. Nessuno tra i dirigenti della Lega e i professionisti dice nulla, il progetto sembra così esagerato e roboante che credono si debba smontare nello spazio della stessa estate. Credono.
Il giorno della selezione Frank e Bing si aspettano una trentina di persone ben motivate e folli, ma all’apertura dei cancelli dello stadio ci sono più di 400 persone provenienti da ogni parte della nazione e decise a prendersi la propria seconda occasione, ad ogni costo. Sembra un vero draft e lo staff messo in piedi per l’occasione visiona scrupolosamente ogni pretendente, scegliendo una rosa di tutto rispetto. Profilo basso, ma spirito giusto.
In pre-season quella manica di scappati di casa, gente con la pancetta e la birra sempre in mano, con le divise sporche e stropicciate, le barbe lunghe e l’aria di chi si è trovato lì per caso, infila 8 vittorie su altrettante partite e i riflettori cominciano ad accendersi, uno ad uno.
I biglietti staccati al botteghino per la prima di regular season sono poco più di venti, ma i ragazzi e Bing scendono in campo come se fosse la finale delle World Series. E così è per tutte le partite del campionato. Infatti i Mavs fanno registrare una vittoria dopo l’altra e anche se non arriveranno ai playoffs al primo colpo, magari l’anno prossimo…
Il punto non è il raggiungimento di un risultato. Almeno non ancora. Per il momento ciò che conta è rispettare lo spirito originario del gioco, respirarne l’essenza, vivere la passione che spinge a mollare il lavoro, la moglie e tutto il resto per potersi allenare, senza compenso, senza prospettive future, solo per amore del gioco. Il professionismo ha smesso di fornire modelli e valori, ha perso la poesia e il romanticismo delle storie di inizio secolo e sta oliando pericolosamente il meccanismo della vittoria ad ogni costo, perché gli investitori la pretendono. Quella di Bing è una provocazione che prende forma e che diventa più pericolosa di quanto si possa immaginare, la sola cosa che esige dai suoi è che si divertano, non per chi viene allo stadio a guardarli, ma per se stessi. A proposito, adesso i biglietti staccati sono un po’ di più, i Portland Mavericks segnano il record di presenze ogni epoca con 127.300 spettatori nella stagione 1975. Sports Illustrated tiene a battesimo la Maverickmania.
Qualcosa è decisamente cambiato e nell’ufficio di Frank Peters, allestito nel suo bar, ovviamente, piovono richieste di giocatori che si propongono per un ruolo in squadra. Alla Lega questa cosa non piace, per l’establishement le Minors sono solo dei parcheggi dove lasciare in stallo vecchie glorie o far fare le ossa ai giovani virgulti che andranno a nutrire le Majors di lì a poco, ma i Mavs sono indipendenti, fuori dal circuito e stanno dando una visione ed una visibilità diversa alla faccenda, spostando l’attenzione dei media e degli sponsor. Non va bene così, Bing, devi chiudere il tuo baraccone. Si, ma vallo a dire ai tifosi, non solo a quelli di casa, vai a spiegarlo a quei ragazzi che ormai sono diventati una famiglia e soprattutto vallo a dire a Joe Garza.
Quello in casacca numero 8, con i pantaloni calati sulle terga, in piedi sul tetto della panchina, che agita una scopa in fiamme e sfodera un paio di baffoni da easy rider, ecco, proprio lui! Joe è uno dei più talentuosi battitori che la squadra possa vantare, uno di quelli che spazza via dal campo gli avversari, ma è anche colui che più di ogni altro ha preso in parola Bing e il suo concetto di giocare divertendosi. Non è mai stanco e ad ogni partita si esibisce in uno show personale. Il pubblico non lo adora, è completamente fuori controllo per lui! Un idolo indiscusso e indiscutibile, tanto che ancora oggi se da quelle parti volete dire che qualcosa è incredibile e vi manda in delirio, basta dire “is a Jogarza!” tutto attaccato senza la e per rafforzarne il suono. Inutile dire che Bing incoraggerà ogni sua singola iniziativa e sugli spalti compariranno migliaia di scope, pronte a spazzare via il nemico!
Si, perché quello dei Mavs non è un baraccone punto e basta, non è come dice il Commissioner e non si sta smontando in una estate, quello dei Mavs è baseball. Giocato benissimo, nel modo originario, solido e spettacolare e più i suoi protagonisti sono fuori dalle righe, più il loro gioco è elegante e di classe. I ragazzi non hanno bisogno di omologarsi e di farsi la barba per essere vincenti, tutt’altro. Bing non deve sedersi al tavolo delle trattative, lui fa il prezzo e fissa gli orari dello spettacolo, il resto succede nel campo. Ed è solo amore per il gioco. Ancora una volta.
Adesso però serve un segnale forte, perché gli inquilini dei piani alti vogliono vedere il fallimento, l’ennesimo di Bing che non può entrare in pompa magna a palazzo e fare come gli pare. Non può restare indipendente e al contempo vincere un titolo. Non può.
La stagione 1977 è un tripudio, la squadra è perfetta, ha innestato alcuni giocatori nuovi che si sono integrati alla perfezione, sono belli, simpatici, vincenti. La NBC dedica loro uno speciale di due puntate sulla tv nazionale e l’obiettivo di appendere al muro il gagliardetto è sempre più vicino. I Mavs finiscono primi con il record di 44 vittorie e vanno alle finali contro i Mariners di Bellingham con la consapevolezza di essere i più forti. Qualcuno, però, non è così convinto. È Frank Peters. Sta seduto su uno degli sgabelli e quella sera il bar è chiuso. Alle pareti i ritagli di giornale e la foto che lo ritrae accanto a Bing e a Kurt, sorridenti in panchina. Frank sa che contro il sistema non si può andare senza farsi male. Teme per la delusione che potrà provare il suo amico vice sceriffo di Bonanza, più che per se stesso. Il fatto è che si è accorto già da qualche settimana che le squadre avversarie schierano giocatori diversi, più forti, più potenti. La Lega ha deciso che no, il titolo non lo vincete e ha “invitato” le Majors a fornire qualche aiutino alle relative Minors, fornendo loro giocatori per rafforzarne gli organici. Morale della favola: i Mariners di Bellingham che fino a quel momento non avevano rappresentato un problema per i Mavs sembrano il Real Madrid di Di Stefano e Puskas, alieni. I ragazzi vengono sconfitti, il risultato è buono solo per le statistiche, perché quella partita l’hanno persa sui tavoli direzionali e sulle poltrone di pelle della Lega. Contro il sistema non puoi andarci. Forse l’anno prossimo…
Non ci sarà nessun anno prossimo, nessuna stagione del riscatto, nessuna spazzata Jogarza. I proprietari dei Beavers, la vecchia squadra di Portland, hanno deciso che la città merita la tripla A e vogliono riscattare i diritti territoriali di Bing Russell, facendo scomparire i Mavericks e tutto il loro stravagante e amatissimo circo.
Negli Stati Uniti il baseball non è soggetto alle leggi dell’AntiTrust ma si autoregolamenta in quanto passatempo nazionale. Lo status di cui gode permette alla squadra più ricca di acquistare quella più povera, previa offerta congrua e di cancellarla dalla faccia del campionato, ma non dalla memoria dei tifosi. Gli emissari dei Beavers convocano Bing e gli sottopongono un offerta cinque volte superiore alla valutazione della sua franchigia, circa 26.000 dollari come incentivo a mollare tutto senza grossi pensieri. Peccato che questa strategia non sia applicabile a Russell che esaminato il valore della squadra e l’amore della città per i giocatori e lo staff, rilancia mettendoci uno zero tra il due e il sei. Tanto per dire. Sonora risata degli avvocati che sbattono fuori Bing consigliandogli una visita psichiatrica. Seh. Il fallimento, stavolta, non è contemplato. Il baseball non si tocca e i Mavs non sono in vendita e se lo saranno lo deciderà il giudice, ma dopo aver ascoltato le motivazioni della richiesta di una cifra tanto assurda. Il giudice dell’arbitrato federale ascolta eccome e stabilisce che la società procuratrice dei futuri Portland Beavers dovrà sborsare ai Portland Mavericks e al suo proprietario la somma di 206.000 dollari, la più alta mai pagata per l’acquisto di una Minor.
La valutazione del giudice federale ha ritenuto ragionevole la somma analizzando i dati di incremento dei bilanci societari, le plus valenze sulle cessioni dei giocatori e le statistiche dei players a roster, ma più di ogni altra cosa ha valutato il valore che quella squadra scalcinata ha avuto nella vita sociale della città. Quei ragazzi non erano destinati a vincere, ma a cambiare le sorti del gioco e la sua percezione fra le generazioni future e il business non può permetterlo, allora, se si tratta di monetizzare una passione, tanto vale farlo nella maniera più cinica.
I Mavericks non sono giocatori falliti che hanno avuto la loro seconda possibilità, sono persone che non hanno mai contemplato il fallimento, non hanno mai smesso, hanno solo cercato il contesto migliore per esprimere il proprio talento. Alla faccia dei manager e delle società, dell’etichetta e delle buone maniere, delle uniformi e delle regole, solo per amore del gioco. Grazie Bing!
SKID