“L’uomo è l’unico animale che rifiuta ciò che è.” Così pensava e scriveva Albert Camus. Un’affermazione del genere potrebbe avere migliaia di declinazioni, non necessariamente negative e, visto il tenore dei miei pensieri, non proverò neanche a cercarle, ma virerò sul sereno, anche se umano, troppo umano. Avere consapevolezza di se stessi è un dono mica da ridere e spesso parte dall’osservazione dello spazio circostante e dagli individui che lo occupano. Sono dell’idea che più alta sia la difficoltà media di sopravvivenza e più ci sia un’alta concentrazione di genialità. Ora, delle due l’una: o a nostro Signore piace compensare ad oltranza e quindi fa in modo che gli scappi la mano, oppure le necessità costringono a superare ogni ostacolo, o quasi. Fatto sta che se rifiuti ciò che sei, o meglio, lo tieni sempre a mente, ma rifiuti il finale della storia e cerchi di cambiare la tua vita, può capitare che da “The Goat” tu possa diventare “The G.O.A.T.” Benvenuti nel mondo di Earl Manigault.
Se sei nato poverissimo, ultimo di nove figli e vieni abbandonato, perché sfamarti è un problema serio, non immagini che il tuo futuro possa essere roseo, a dire il vero non lo immagini neanche un futuro, probabilmente. Ma non andrà così, ovviamente. Lasciate che vi avverta del fatto che in questa storia quasi nulla andrà come previsto. Infatti, Mary Manigault, una mamma come solo certe donne possono essere pur non essendolo davvero, adotta Earl e lo porta con sé a New York, regalando allo sport di strada il più grande capolavoro incompiuto della sua storia. Nella città del basket da playground, il ragazzo comincia ad allenarsi con la palla a spicchi, provando a crearsi delle skills ad hoc, dato che i suoi scarsi 185 cm non sono proprio un’altezza da competizione. Affina la tecnica e salta coi pesi alle caviglie. Dettaglio non trascurabile, fidatevi, ci tornerà utile in seguito. Al liceo il suo talento cristallino emerge poderoso e lo porta a giocarsi le finali del campionato scolastico cittadino, siamo nel 1965. Ultimi minuti, segna il punto decisivo sulla sirena. Vittoria. Trionfo. Neanche per idea. Quella finale non la gioca neppure, perché è sospeso per aver fumato una canna. Infatti il suo liceo perde miseramente e sulla ribalta ci finisce un altro signore: Lew Alcindor che i più ricorderanno con il nome di Kareem Abdul-Jabbar! Occasione sfumata. Altro giro di carte con Sua Ironia la Sorte. Sui playground di Harlem tutti sanno chi è Earl The Goat e lo sa anche un signore di mezza età col fiuto per il genio: Holcombe Rucker. A questo omone afroamericano si deve tutto in fatto di streetbasket e gli deve tutto anche Earl. Rucker, infatti, lo iscrive ad una scuola privata e lo manda lontano da Harlem e dalle pericolose compagnie. Tutto fila liscio finché non entra in rotta di collisione con il coach della squadra locale che pretende da lui la difesa (Mon Dieu!) e il nostro torna correndo all’indietro, dove ad attenderlo a New York c’è il solito squallore, più i vecchi amici, pericolosi più che altro per lui. Gioca per strada, ma per strada ci vive e si fa di eroina. Ne trova tanta e a The Goat nessuno la nega. Ora è il re di Harlem e Mr Rucker è morto. L’eroina inizia ad essere la sua unica ragione di esistenza, perché chiamarla vita è un insulto. Diventa padre, ma forse non è in grado di capirne il significato. Spaccio, perché il re non vola più e deve comprarla, furti, rapine. Carcere. In mezzo metteteci un provino per l’ingresso in una squadra semi professionistica andato in vacca, visto che si regge in piedi come Rocky dopo Apollo. A questo punto tanto vale farla finita. Finita. No. In cella non si sa da dove e non si sa da chi, riceve un libro nel quale viene annoverato tra i più grandi nel City Game.
Se sei ultimo di nove figli e vieni abbandonato, non è che sei proprio sicuro di volertene andare senza lasciare traccia del tuo passaggio. Lo devi a te stesso, lo devi soprattutto al tuo dono, che in quanto tale, lo hai ricevuto e qualcuno te ne chiederà conto. Uscito di prigione rimette su il vecchio campetto del quartiere e cerca di essere utile ai ragazzi in difficoltà, nel segno di Holcombe Rucker. Racconta la sua storia e organizza tornei, tiene lontana l’eroina. Forse troppo tardi. Dopo una vita come la sua, la salute è quantomeno compromessa. Si ammala e muore il 15 maggio del 1998. Il cuore non ha retto, non tanto il suo, quanto quello dei newyorkesi, lo stesso giorno, infatti, se ne andava un altro figlio prediletto della città che non ne vuole sapere di dormire: Frank Sinatra. Come potete immaginare il tributo a Earl Manigault è passato, diciamo così, in secondo piano. Più tardi gli verrà intitolato il playground che lo ha visto volare sopra i 4 metri di altezza, afferrare un quarto di dollaro dalla parte alta del tabellone e atterrare sorridente e compiaciuto davanti agli occhi di chi lo ha consacrato per sempre, da capra a The Greatest Of All Time.
SKID