“Come faccio a passare da quest’angolo di strada al resto del mondo?” L’angolo in questione si trova ad Harlem, tra Madison e la Fifth Avenue e non ha niente che non vada per Daniel, se non fosse per i suoi occhi. È nato nel 1944, in quella porzione di Manhattan che più dei segni della Guerra in corso, mostra ancora quelli della grande depressione, della segregazione e del sogno americano che quelli come lui non possono permettersi nemmeno di nominare, ma del quale sono vittime sacrificali. È un ragazzino sveglio, non ha paura di stare per strada, anzi, per strada ci fa gli affari migliori. A 13 anni ha una bella reputazione da giocatore d’azzardo e le conoscenze giuste per camparci discretamente, senza pestare i piedi agli italiani in doppio petto gessato e Borsalino che controllano tutto, da quelle parti, almeno fino a quel momento.
Guarda oltre le cose, Daniel o meglio, Dan. Ha visto che quegli abiti eleganti non possono donare raffinatezza e grazia a chi non le possieda naturalmente. E ha visto che quelli come lui, i neri di Harlem che vivono la strada, vogliono indossarli per sembrare veri gangster, per assomigliare a Sammy Davis Jr, che lì c’è nato e che con gli italiani ha fatto fortuna. Ma lui è diverso, lui vuole che gli abiti abbiano qualcosa di nuovo, che provino a raccontare non solo la storia di chi li ha disegnati, ma soprattutto di chi li indossa. Fare il baro nelle bische clandestine ha fruttato il giusto per smetterla con quella vita. Con l’alcool, con la droga e tutto il resto, è il momento di prendersi cura di se stesso o in quell’angolo di strada finirà per morirci.
Ha talento Dan, non solo per il gioco, i dadi, le carte, le chiacchiere e i sorrisi sornioni che tanto piacciono alle ragazze di vita che accompagna volentieri a casa, ma anche per gli affari. Sa bene che rimanere ancorato alle vecchie abitudini lo trasformerà nell’ uomo qualunque e lui uno qualunque non lo è stato mai. Per prima cosa decide di completare un percorso di studi antropologici che lo riportano alle origini del suo popolo e complici una borsa di studio alla Columbia University ed un’iniziativa umanitaria della Urban League, intraprende un viaggio in Africa che gli consentirà di prendere coscienza di sé e delle sue capacità, ma anche di concepire un primo piano di azione per il futuro.
Non c’è nulla che non vada ad Harlem, se non fosse per i suoi occhi che hanno sempre guardato al di là della realtà, percepita finora come ineluttabile, poiché nessuno intorno a lui ha potuto cambiare il proprio destino senza pagare con la libertà o con la vita. Il mondo è cambiato, non sono più gli anni cinquanta della rinascita post bellica, né i sessanta dell’amore universale. Il sogno del Dottor King è diventato l’incubo di Malcom X ed ora là fuori, sui marciapiedi non c’è più spazio per l’illusione, non ci sono possibilità o aspirazioni per chi è costretto ancora ad imbracciare un fucile per rivendicare parità di diritti.
Quei ragazzi vogliono assomigliare ai gangster italiani, alle rockstar inglesi, agli attori patinati della Hollywood bianca, vogliono permettersi il lusso di sfoggiare il lusso, pur non potendosi neppure avvicinare ad una vetrina di Gucci, di Louis Vuitton o di Fendi.
Dan capisce che gli abiti potrebbero dare alla sua gente una dignità apparente che la loro condizione non potrà mai concedere e, magari, potrebbe persino aiutarli a credere in una possibilità concreta di riscatto, partendo, perché no, dallo stile.
Si attrezza come può, come sa, come deve. Ha ancora i contatti giusti e decide di farli fruttare. Acquista partite di abiti rubati, ovviamente delle migliori griffes e nella vecchia station wagon del padre allestisce una piccola esposizione da presentare come fosse una vera collezione, il campionario di un vero stilista. Come sempre se la cava. Un sorriso, una mano poggiata sul fianco della signorina che prova il capo, una parolina sussurrata all’orecchio e la favola si completa con un biglietto verde in una mano e il solito mezzo inchino di ringraziamento.
Va avanti per un po’ così, ma c’è qualcosa che ancora non funziona come dovrebbe. Gli abiti che riesce a reperire dai ricettatori non sono esattamente adatti alla sua clientela. Innanzitutto perché i grandi marchi non vanno mai in là con le taglie, riducendo di molto le possibilità di vendita e poi si rende conto che in strada lo stile sta cambiando. C’è qualcosa di nuovo che sta nascendo e che arriva dal Bronx, almeno così dicono. A questo punto tocca ancora guardare oltre e un’intuizione spiana la strada a Dan per concretizzare la sua fantasia più inconfessabile: perché vendere abiti già confezionati da stilisti europei che non sanno nulla di noi e del nostro stile, quando potremmo disegnarceli e creare tutto ciò che abbiamo sempre desiderato?
Potrebbe essere una grande opportunità per gli stessi grandi marchi, potrebbero accogliere questa idea come una sfida stimolante e magari creare delle linee apposite che rispecchino il gusto della strada, le nuove tendenze! Potrebbero invadere un mercato inesplorato, magari chiamandolo come consulente! Chi potrebbe rifiutare una proposta tanto geniale? Chi? Tutti. Si rivolge alle case di moda più prestigiose, ai loro Art Director, ai buyers, ai disegnatori e persino ai passacarte degli uffici, nessuno vuole ricevere Dan e dare credito al suo progetto.
Il problema non sta nell’idea troppo ambiziosa, ma nel fatto che una clientela nera, per giunta poco abbiente, non interessa a nessuno che abbia una minima idea di marketing. Non c’è motivo per il quale le case d’alta moda debbano pensare di scendere nei bassifondi o adottare come testimonial persone senza futuro, anzi, senza presente.
Stavolta il sogno deve rimanere nel bagagliaio di una vecchia station wagon.
Così sarebbe se non si trattasse di Daniel Day che nel frattempo tutti chiamano Dapper Dan, per il suo portamento regale e lo stile impeccabile. Altro ostacolo, altra intuizione: se non posso avere udienza dai signori della moda, non potrò neppure avere i loro tessuti, allora come si fa a comprarli per potersi mettere in proprio e iniziare una produzione vera? Qui il genio si manifesta in tutta la sua splendida semplicità: acquista in stock borse e valigie delle stesse griffes, le scuce e ne ricava gli scampoli necessari a confezionare i primi campioni da far provare ai clienti.
Ogni sarto che si rispetti deve avere la sua bottega e dove se non tra Madison e Fifth Avenue, in quell’angolo di Harlem dove guardare l’orizzonte è sempre stato un lusso riservato ai sognatori? La Dapper Dan’s Boutique in pochissimo tempo diventa il punto di riferimento per chi voglia capi esclusivi, personalizzati, su misura, firmati Gucci, Vuitton, Fendi, senza spendere una fortuna. E soprattutto senza che Gucci, Vuitton e Fendi abbiano la minima idea di ciò che stia succedendo.
Non basta. Nel 1982 non è sufficiente indossare una giacca per sembrare cool, bisogna che questa sia unica. E soprattutto che rispecchi i dettami che quel fenomeno culturale proveniente dal Bronx e che ora risponde al nome di Hip Hop sta imponendo alla nuova generazione.
Ma gli anni ’80 non sono solo gli anni della rivoluzione culturale e politica mondiale, sono anche gli anni d’oro del crack, la nuova droga che sta falcidiando i giovani e gli adulti in tutte le città americane ed in particolare a New York.
Chi la assume ci muore, chi la vende si arricchisce. E chi si arricchisce vuole spendere i propri soldi per ostentare ricchezza. Non c’è Mercedes con a bordo uno spacciatore di crack da quelle parti che non abbia i sedili rivestiti da Dan con la stessa pelle di cui sono fatti gli abiti indossati dal suddetto proprietario. È un florilegio di loghi giganti e iniziali dorate, ciniglia, pelle di coccodrillo, pellicce di cincillà, tutto materiale uscito dalla boutique di Dan che per soddisfare le richieste lavora anche 24 ore al giorno per 7 giorni a settimana, organizzando persino uno sportello drive in per le riparazioni dell’ultimo minuto, perché si tratta di clienti che non accettano un no come risposta. Come quella volta che gli fu commissionato un completo giacca e cappello, antiproiettile…ma questa storia meriterebbe un capitolo a sé.
Cambia il gusto e cambiano i modelli, Dan è il primo a creare abiti over size, giacche ampie e corte, riprende i concetti espressi dal design sportivo e li rielabora facendone capi di grande pregio, crea coordinati e twin set dai volumi ampi che rendono tutto più morbido e accattivante, ma soprattutto personalizzabile. Il nome del cliente diventa un marchio a sua volta, conferendogli quella dignità che prima d’ora non aveva mai avuto. La vera chiave di volta di tutta la produzione di Dapper Dan sta proprio nella voglia di conferire lustro a chi non può permettersi di averlo, far sentire desiderabili persone ricusate dalla società, rendere splendenti laddove tutto è buio.
La fama precede Dan ormai ovunque. Il gotha dell’Hip Hop e buona parte del jet set newyorkese si fanno immortalare in passerella, ai party, sulle copertine dei dischi, nei videoclip, facendo sfoggio dei propri capi esclusivi. Ma quando sei in cima, puoi solo scendere.
Come Dan aveva sgomitato per farsi un nome, così un altro ragazzo aveva fatto letteralmente a cazzotti per uscire da Brownsville, un sobborgo di Brooklyn, e dimostrare al mondo che non era uno qualunque: Mike Tyson era il campione incontrastato dei pesi massimi, una calamità naturale come mai si era vista sul quadrato, il più giovane di sempre a salire su quel trono. Ma la sua esuberanza, quella che gli ha condizionato tutta la vita, stavolta costerà cara anche a Dan.
Nel 1988 Iron Mike si rende protagonista di una rissa, probabilmente orchestrata ad hoc dai suoi manager, proprio fuori dalla boutique, con MItch Green, suo rivale dell’epoca. Niente di nuovo sotto il sole, se non fosse per il fatto che Tyson viene ripreso e mandato in mondo visione, indossando la sua giacca “Knock Off” di Fendi. Per la prima volta un modello di Dan arriva oltreoceano, scatenando le azioni legali dei marchi che aveva utilizzato illegalmente.
In brevissimo tempo, complice anche un articolo del New York Times, tutte le case di moda fanno cartello contro il nemico pubblico numero uno e a seguito del processo intentato ai suoi danni, nel 1992 Dapper Dan è costretto a chiudere bottega. Definitivamente.
Potremmo usare questo avverbio se fossimo nel campo del reale, ma qui stiamo parlando di sogni e di idee, quelle che non possono essere imprigionate in un punto e a capo.
Nel 2017, infatti, la maison Gucci ha presentato in passerella una giacca diciamo così “ispirata” ad un modello che Dan aveva disegnato per Diane Dixon nel 1989. Quando Diane ne è venuta a conoscenza, ha postato sui propri social la foto della giacca originale, creando un interesse pazzesco intorno alla storia, tanto da costringere il direttore creativo della casa di moda, Alessandro Michele a dichiarare il tutto come un omaggio ad un grande stilista. Dan ha sempre guardato oltre e non ha mai pensato neanche per un attimo che quello potesse essere un semplice omaggio, quella era una porta spalancata per poter mettere un piede a palazzo.
È volato in Italia per incontrare Michele e i vertici di Gucci e ne è uscito con un contratto di collaborazione che gli ha consentito nell’ottobre 2018 di riaprire il suo atelier, naturalmente ad Harlem, rimettendo le mani sulle stoffe che aveva reso popolari laddove non sarebbero mai arrivate, questa volta con tutte le autorizzazioni e magari creando abiti gioiello per pochi, ma con lo stile e la mentalità di un visionario che ha attraversato mille vite per arrivare al resto del mondo, partendo da un angolo di strada.